Peppe di Gennaro: in bilico tra attesa e ispirazione…

Un lunedì di pratica apparentemente come gli altri e al tempo stesso diverso e nuovo…

Pare che certe persone debbano piombare in mezzo al tuo cammino proprio nel momento esatto in cui  appare assolutamente necessario. A poco sarebbero valsi giorni di studio due anni fa, senza l’attesa di un calice di vetro da cui scorgere, in trasparenza, una nuova prospettiva.

Ed è così che da un mancato incontro e dal racconto entusiasta di chi ha avuto il piacere di conoscerlo prima di me, che è iniziata la curiosità della scoperta. Fino a quel lunedì in cui mi sono resa conto, mentre l’ascensore pareva non arrivare mai al piano zero, che stavo parlando con lui e con l’ispirazione cercata da tempo.

Sono ormai le due del mattino e la cena si è appena conclusa, con la “charla” (così la chiama lui) che ha preso il sopravvento e io che non mi perdo neanche una parola, in un religioso e indiscreto silenzio. La luce è diventata un velo leggero: con me solo il mio quaderno, il registratore e Peppe Di Gennaro ancora pieno d’energia, che inizia a raccontarsi.

<<  SAGLIAPIGN… è il mio soprannome… quello che mio nonno mi ha attribuito quando ero piccolo. Il sagliapign è un tipo di passero che vive solo nei dintorni di Giugliano, che cammina sotto gli alberi di pino per catturare i vermi, perchè da sopra i rami non ne sarebbe in grado. E’ un animale astuto, una sorta di Ulisse che se la cava sempre. Un pò come me quella volta che sono salito su un albero e non riuscivo a scendere. Allora mi vennero a prendere con la scala, mentre mio nonno diceva a tutti: “Peppe è proprio un sagliapign”  >>

 

 

“Non esiste arte o sapere che non sia raggiungibile senza l’apprendimento”  Si pronuncia, così, Democrito in uno dei suoi famosi frammenti. Qual è il tuo rapporto con i pre-socratici e in che modo hanno a che fare con il tango?

Ho una vera e propria adorazione per i pre-socratici, soprattutto per Eraclito. Credo che il “Diels- Kranz” sia il libro a cui sono più legato, peccato che pesa troppo e non posso portarmelo dietro ogni volta. Quanto al frammento di Democrito, penso che il suo sia un pensiero nobile, se lo mettiamo in connessione con il tango. In questo ambiente si tende spesso a dare troppa importanza alle doti innate piuttosto che all’esercizio. L’esperienza, invece, mi ha insegnato che tra i miei allievi, quelli più portati hanno smesso o li ho persi perchè si è creata una frattura nell’apprendimento. E altri, che ritenevo irrecuperabili, mi hanno dimostrato attraverso il lavoro che mi sbagliavo, potendo così essere partecipe della loro crescita e trasformazione. Una crescita legata al tentativo, al continuo riprovare, alla possibilità di fallire. Una trasformazione che avviene anche e soprattutto attraverso “la crisi”, che è una cosa che auspico sempre, anche per me stesso. Durante l’ultimo festival con Gianpiero Galdi, mi ha chiesto: ” Peppe ti vedo preoccupato… Perchè?” Ed io ho risposto: “Gianpiè, sta andando tutto troppo bene!! C’è qualcosa che non va…”

 

L’apprendimento come forma di crescita. Quali sono stati i tuoi modelli? Quali le figure principali che hanno influenzato o che continuano ad ispirare il tuo modo di fare tango?

Ho studiato praticamente con tutti, ma pochi sono i miei punti di riferimento. I primi a colpirmi furono senz’altro Carlos Gavito e Roberto Herrera. Sto parlando di un periodo che risale almeno a quindici- diciotto anni fa, quando per studiare si doveva viaggiare in treno e per imparare qualcosa guardavi i VHS. Una svolta importante, poi, è avvenuta nel 2003 a Napoli, durante una serata dedicata alla visione di alcuni filmati, in cui mi ero decisamente intrufolato. Fu in quella situazione che conobbi Chicho Frumboli e ne rimasi “brutalmente ferito”. Decisi allora di andare a Parigi per studiare con lui e dimostrare che secondo me quello non era tango. Parto proprio con questa intenzione che sa di sfida e alla fine rimango folgorato. Pensavo che fosse agli antipodi, che ne so, rispetto a Gavito, e invece stavano dicendo la stessa cosa con modalità differenti. Chicho è riuscito a rimanere sempre un modello, perchè nel nostro rapporto non smette mai di sorprendermi. Lui mi mostra continuamente che cosa significhi essere invasati, essere presi da un ” δαίμων ”  e trasformarsi durante la lezione. E’ l’esempio di come si possano rompere gli schemi, creare una rivoluzione inevitabile del sistema, quale frutto di un’esasperazione interiore che ha come unica soluzione il cambiamento. Gavito, Herrera, Frumboli sono stati esempi fortissimi, ma ho anche dei bei ricordi legati a Osvaldo Zotto e Pablo Veron.

 

Un solo tango, molteplici stili e diversità… Quali pensi che siano le caratteristiche principali del tuo TANGO PULSE?

Beh… Con questa domanda sei andata a toccare qualcosa di molto importante, un argomento secretato, quasì tabu’, di cui credo di non aver mai raccontato prima. Però è passato tanto di quel tempo da quell’ esperienza, che oggi mi fa davvero piacere parlarne.

Tango Pulse era la dimostrazione che il tango si poteva trasmettere non più come una cultura altra, ma come un modo di vivere, di essere, proprio come ho immaginato che fosse a Buenos Aires negli anni ’40/’50. Un tango modellato su una musica non necessariamente di genere, ma sicuramente molto ispirata. Un mondo in cui la tecnica è importante, ma deve essere in grado di mischiarsi ad una certa volontà creativa e ad una certa sperimentazione. Si tratta di qualcosa di incontrollabile, che ti parte da dentro e non puoi tenere a freno. Un modello molto diverso dall’anarchia, perchè si è in continua relazione con l’altro, ma in cui si riesce a vivere di emozioni allo stato puro. L’obiettivo era portare fuori lo stato emotivo attraverso la musica, il contatto del corpo con il pavimento, quasi come viene fatto nella meditazione guidata. In un paio d’ore si riusciva davvero, ballando con due o tre persone al massimo, ad entrare in una vera dimensione creativa in cui si poteva assistere, più che ad una metamorfosi, ad una vera e propria mutazione. Un’esplosione di emozioni generata da un unico fattore: l’AMORE. Inteso proprio come amore per un’altra persona, come una condizione labile e transitoria che detta legge nel bene e nel male.

 

Maestro, artista impegnato in esibizioni, musicalizzatore. Quando hai deciso di iniziare a mettere musica?

Ho iniziato a prendere lezioni di tango nel 1999 ed ho messo musica praticamente da subito. Non avendo nessun senso della misura, ho iniziato ad ascoltare tango in maniera del tutto compulsiva. All’inizio fui attratto soprattuto da Piazzolla e Gardel. E fu proprio l’amore per questo genere musicale a spingermi a ballarlo. Io provenivo dal mondo della break-dance, da ragazzo ero molto bravo. Mi esibivo e l’idea di ballare con qualcun altro fuori da me era inconcepibile. Poi mi sono avvicinato al tango e per tre anni dal ’99 al ’02 ho preso lezioni pur pensando che fosse qualcosa di distante, fino al momento della vera e propria folgorazione. Quella che avviene quando vieni ammaliato da una persona. La vedi un giorno a lezione, la vedi in milonga, la vedi fare delle cose meravigliose che ti ispirano e ti innamori. E’ in questo contesto che ho cominciato a catalogare musica tra il 2003 e il 2004.

 

 

E in che modo fare il dj può entrare in conflitto con gli altri due ruoli?

Metto musica cercando di generare emozioni, e insegno perchè voglio che i miei allievi riescano a stare bene in milonga, anche se so che il mio contributo può incidere solo in minima parte. Faccio tutto questo mosso da un amore verso il prossimo. Cosa che è assolutamente diversa nel momento in cui ballo, in cui pur essendo filantropo per natura, non riesco a porre troppa attenzione a ciò che mi accade intorno ma sono più connesso con me stesso.

Un’ ultima curiosità… So che durante le tue lezioni ami raccontare aneddoti sui personaggi e i testi. Puoi parlarmi del mito di “Desde el alma”  

La storia di “Desde el Alma” è ben descritta nella biografia di Rosita Melo. Tra l’altro nel momento in cui me ne sono occupato, poche erano le fonti sui blog. Per cui mi sono documentato direttamente alla Biblioteca Nazionale di Napoli, prelevando le informazioni da un libro che parlava di lucani famosi nel mondo. Si tratta di un brano scritto da una ragazzina di quattordici anni che racconta il perdono di una figlia alla madre, dove l’amore è devozione ma devozione per la vita. Nella versione successiva Homero Manzi riformulerà il testo mettendo al centro del racconto il rapporto tra un uomo e una donna, pur riuscendo a mantenere il pathos invariato. Nel brano di Rosita c’è qualcosa di inconsapevole, una forza legata all’età in cui è stato composto. Cosa che si può dire anche per “Recuerdo” che è stato scritto da Osvaldo Pugliese quando aveva quindici anni e fu per questo registrato a nome del fratello.

Al di là degli aneddoti, una cosa che ritengo importante è saper riconoscere un brano ispirato da uno che non lo è, e “Desde el alma” è sicuramente uno di questi, proprio perchè riece a mantenere intatto il suo pathos originario anche dopo aver subito delle trasformazioni. Così come lo sono tutti quei brani in grado di superare le mode del momento..

 

 

Abbiamo finito l’intervista, la mia prima intervista. Ascolto per un attimo  il silenzio che che ha sommerso la stanza, solo un istante piccolissimo. Il tempo di chiudere il quaderno, rimettere a posto il registratore e sentire di sottofondo “Eh Federì, ti ho riempito ‘a capa ‘e chiacchiere”  con la stessa identica energia con cui è iniziata la serata.

Chi glielo spiega che avresti potuto ascoltarlo fino a mattina…?!